La pioggia

E’ l’odore di pioggia il mio odore preferito, si libra leggero nell’aria come una farfalla svolazzante da un fiore all’altro in una bella giornata di primavera. La pioggia però non è solo della primavera, è di tutte e nessuna stagione, va e viene, si fa desiderare, talvolta odiare persino, quando è troppa e annega tutto in uno strato liquido impossibile da far defluire. Insegna l’arte dell’attesa, la pioggia; insegna la necessità di lasciarsi andare, di scorrere e far scorrere, di esplodere quando è accompagnata da fulmini e tuoni, potenze inafferrabili temute ancora oggi, non solo dai bambini.

Troppe poche persone la amano e ne comprendono l’essenza mutevole; sono persone-pioggia, pioggia esse stesse, nate dall’acqua e cresciute con l’acqua in tutte le sue forme ed espressioni dentro: mutevoli, leggere e dolci un momento e scure e tempestose quello successivo. Ne percepiscono l’arrivo e la accolgono con un sorriso seguito da un senso di liberazione.

Anche oggi aspetto la pioggia, in questa calda domenica di giugno dal cielo blu come il mare senza increspature. Aspetto perché la pioggia prima o poi arriverà e con lei il suo profumo che si libra leggero come una farfalla svolazzante in una bella giornata di primavera.

Vi presento la mia rottura di scatole personale.

L’ultima volta vi ho scritto i miei soliti pensieri sconnessi, oggi vi presento genericamente la mia personalissima rottura di scatole, non per vittimismo o altro, ma per condividere una parte della mia storia nella speranza sia d’aiuto a qualcuno. Nel discorso sono entrate anche esperienze di altre persone e qualche parolaccia. Spero di non esser stata troppo cruda ma era necessario scrivere così.

Ci sono troppe cose a cui diamo troppa poca importanza, ad esempio la gentilezza, l’empatia, le parole.

Un mese fa stavo per tagliarmi le vene, domenica 8 aprile, vigilia del mio 26° compleanno. Per ben due volte ho avvicinato la lametta ai polsi e ho premuto un poco, cercando il coraggio di andare a fondo e mettere un punto ai sensi di colpa, ai pensieri ossessivi, all’ansia che mi impedisce di condurre una vita normale, alla sensazione di essere un peso per tutti. Giocano brutti scherzi i pensieri autolesivi. Un attimo prima vuoi solo inciderti la pelle per attenuare la tensione e tirare fuori almeno un po’ del dolore che c’è dentro spremendo le ferite fino a far colare il sangue, un attimo dopo pensi che sia meglio dissanguarsi completamente e farla direttamente finita. Levo il disturbo, così state più leggeri. Una bocca in meno da sfamare, no? Pensieri orrendi, rivoltanti, alimentati da sensi di colpa arrivati da chissà dove e chissà chi. Sicuramente da pregiudizi e bocche che paiono fogne, così come dai “c’è gente che sta peggio”, “esci che ti passa”, “basta non pensarci” e la mia preferita “devi reagire e darti una mossa”. Chi cazzo ti dice che non lo stia già facendo, che un gesto semplice come entrare in un bar non sia per me una vera e propria conquista? C’è pure gente che grida “vergognati”, che dice che uso i disturbi come “un alibi per stare a letto a fare niente tutto il giorno”. Queste due coltellate arrivate direttamente da una “familiare”, quella che in teoria dovrebbe essere mia nonna ma, evidentemente, non lo è ora e non lo è mai stata. Pure psicologa, ve lo immaginate? Una pazza di 80 anni abbastanza lucida da sapere cosa stava dicendo che urlava a pieni polmoni che mi devo vergognare. Come direbbero in inglese “way to go! Bene così!”. E non sono l’unica con questo tipo di esperienza purtroppo.

Vedete, i peggiori nemici la maggior parte delle volte li abbiamo in casa. Hai l’ansia? Esci. Sei autolesionista? Smetti. Ti vuoi ammazzare? Non ha senso. Sei depresso/a? Fai una passeggiata. Ti strafoghi? Smettila. Rifiuti il cibo? Non vorrai mica diventare pelle e ossa. Ti strafoghi e poi ti procuri il vomito? Peggio per te. Sei alcolista/drogato/dipendente da qualcosa? Che schifo, il peggio del peggio. Agorafobica? Giro al centro commerciale come terapia d’urto e vedrai che passa tutto. Etc. etc. Si riduce tutto ad un “HO (inserire nome) che fa queste cose. MI ci mancava solo questa”. Scusa, eh.

Perché fermarsi un attimo a chiedersi cosa ci sia dietro costa troppo. Capisco che i disturbi psichiatrici facciano paura, ma non sono MAI una vergogna. Mi chiedo se vi fermiate mai a pensare a quanta paura facciano a chi li combatte giorno e notte, sette giorni su sette, h24, senza poter mai riposare. Le pilloline non fanno le magie, non sono davvero “happy pills”, pillole della felicità, perché non sempre si trova quella giusta, a volte funzionano per un po’ e poi “ciao, è stato bello  finché è durato”, altre volte creano altri problemi, tra cui disturbi del sonno che noi “disturbati” spesso abbiamo già; insonnia, incubi, terrori notturni, ipersonnia, etc. Ah, senza dimenticare i fantastici mix tra un disturbi del sonno che contribuiscono, insieme agli atteggiamenti sopracitati, a peggiorare notevolmente i sintomi, la qualità della vita e a rallentare la guarigione.

Mi chiedo un’altra cosa: davvero la gente si stupisce quando una persona s’ammazza? Dopo aver ripetuto di star male, dato spiegazioni fino allo sfinimento, sopportato pregiudizi, incomprensioni e minchiate varie. Davvero ha il coraggio di stupirsi? Uno cerca aiuto, gliene dicono di tutti i colori e poi “era troppo fragile”. No, bestie. Non era lui/lei ad essere fragile, siete voi che l’avete gambizzato/a quando vi ha chiesto aiuto. La gente che si suicida non è fragile e nemmeno egoista, non ha altra via d’uscita. È diverso. E quando il danno è fatto, “eh, ma poteva farsi aiutare, la mia porta era sempre aperta”. Ah sì? E quante volte gliel’hai sbattuta in faccia con “c’è gente che sta peggio… sapessi io… devi darti una mossa… reagisci… esci e vedi come ti passa”e tutto il resto. Quante volte? Troppe. Sicuramente troppe.

Mi chiamo Giuliana e ho 26 anni. Ho disturbo d’ansia generalizzata, disturbo ossessivo compulsivo, pensieri suicidi, altre robe che manco ricordo, ho pure una tendenza alle dipendenze e sono una (ex) autolesionista. Sono una persona, non una serie di diagnosi motivo per cui non mi sento una vittima e nemmeno malata. Ho deciso di condividere la mia storia e pezzetti di storie di altre persone perché sono incazzata, stufa di dover subire uno stigma sociale insensato e malato. Scrivo nella speranza di accendere un piccolo lumicino nella “selva oscura”, per citare un grande, di pregiudizi e ignoranza testarda e per invitarvi a riflettere sempre, essere gentili ed empatici sia nei gesti che nelle parole. Non possiamo mai sapere chi abbiamo davanti e dove sia persa la sua testa, dove sia sospesa la sua vita e una parola sola potrebbe fare una grande differenza, in alcuni casi addirittura tra la vita e la morte. Ho deciso soprattutto di condividere per chi ha rotture di scatole come le mie o peggiori, per dire “ehi, tu! Non sei solo. C’è gente che ti capisce perfettamente da qualche parte nel mondo e ti vuole un gran bene e ti reputa importante anche se non ti conosce nemmeno”.

Alla prossima, sperando in temi più allegri.

Riflessioni dal fondo del pozzo III

Caffè Letterario

C’è che a 26 anni ho paura del buio. Non è normale. O forse sì? In fondo chi siamo noi, piccoli granelli di sabbia nell’universo sconfinato, per decidere cosa è normale e cosa non lo è?

Non avevo paura del buio fino a qualche anno fa, fino a quando le tenebre hanno iniziato a farsi nuovamente strada, striscianti. C’è che certe ferite restano aperte e forse non si richiudono mai. C’è che scrivo troppo poco e resta tutto dentro.

C’è che i pregiudizi sono tanti e il veleno ancor di più. Fanno paura le teste bacate. Come potrebbero non farne quando la “pazzia” può colpire chiunque, all’improvviso.

Scusate per i pensieri sconnessi e bui, però questo è quello che oggi sono riuscita a tirare fuori. Un pezzetto di anima ferita, nero su bianco.

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11 Marzo

Caffè Letterario

Talvolta sono i post che conosciamo meglio quelli che riservano più sorprese. Oggi vi
IMG_20180126_151932parlo nuovamente della mia Cagliari e di una piccola perla scoperta per caso poco tempo fa nel quartiere storico dove sono cresciuta. Il nome della via è facile da ricordare e rispecchia alla perfezione il carattere della strada stessa: Via Stretta. Ci si deve passare in fila indiana, soprattutto nei tratti dove il verde è più folto; ci sono piante e fiori di tutti i tipi che spuntano dai contenitori più variegati come classici vasi, contenitori di recupero, gabbie, teiere e scarpe. Qui e là, seminascoste, sedie più o meno vecchie stanno in attesa dei proprietari che immagino la sera escano a prendere il fresco nel loro giardino urbano improvvisato. Non mi dispiacerebbe abitare lì, sentirmi in un piccolo e magico mondo che pare uscito da un libro di favole.

E niente, oggi mi fermo qua…

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Storie in pillole – IV

Post per Caffè Letterario.

Caffè Letterario

Non trovo l’interruttore; la luce resterà quindi spenta ma non è un problema. Conosco bene questo posto e ne ricordo bene spigoli e gradini. E i mobili. Mobili scuri e pesanti carichi di cimeli vari, fotografie, libri e ricordi. Strano. Ricordo la posizione di tutto tranne l’interruttore. Forse non mi sono mai preoccupata di cercarlo nelle notti infinite, di rischiarare il buio reso appena meno nero del nero più nero dalla flebile luce che arriva dalle grandi finestre incorniciate da pesanti tende polverose. Chissà. La casa scricchiola, sempre. Quando c’è vento, piange. Davvero. Arriva un singhiozzare dalla soffitta, nessuno sa però chi ci sia lassù. Quella porta non si apre, nessuno è mai riuscito a sfondarla. Ci sarà qualcosa che la blocca, dicono. Quindi chiunque stia lassù, lì è condannato a restare. Oggi non c’è vento. Piove. Si avvicinano anche i tuoni. Vado in cucina, prendo un bicchiere e lo…

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Storie in pillole – III

Post per Caffè Letterario.

Caffè Letterario

“Come fai a leggere quella roba?” chiese Daniele.

“E’ interessante.” rispose Giulia.

“D’accordo ma… non ti inquieta? Non ti fa venire il voltastomaco?”

“Perché dovrebbe?”

“Beh, sono… serial killer. Cioè, non sono normali e nemmeno sani di mente.”

“E chi lo dice?”

“Mi sembra ovvio… voglio dire, uccidono la gente per divertimento.”

“Non è proprio così in realtà.”

“Ah no?”

“No. Per alcuni è, sì, divertimento, per altri una compulsione, per altri ancora una reazione ad un trauma.”

“Anche io ho subito traumi ma non vado ammazzare persone a caso.”

“E’ proprio questo il punto: perché loro lo fanno e tu, o io, no? Dove sta la differenza? Abbiamo questo “potenziale” orribile? La mente umana è incredibilmente complessa ed è proprio questa sua caratteristica a dare vita all’individuo e ai suoi comportamenti. Non voglio giustificare le loro azioni, ovviamente, ma le voglio capire. C’è dell’oscurità in ognuno di noi e…

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Storie in pillole – II

Post per Caffè Letterario.

Caffè Letterario

Erano note straniere eppure stranamente familiari, una melodia dolce e aspra retaggio di una popolazione antica e austera, nata dalle radici fredde della Scandinavia.

Clio non riusciva a spiegarsi perché ma, quando sentiva quella musica, la sua mente andava subito al Nord, quello estremo delle aurore e del sole di mezzanotte che immaginava fatto di spazi sconfinati, silenzi e solitudini, caminetti accesi, neve e… “casa dolce casa”.

Accese il portatile e cercò immediatamente il primo volo disponibile per la Scandinavia, senza una meta precisa, lasciando che fosse il destino a decidere per lei: Isole Faroe, sperdute nell’oceano tra la Norvegia e l’Islanda.

Fece qualche telefonata, fece le valigie. Preparò una tazza di cioccolata bollente e si sedette sul divano, pensierosa.

“Lo sto facendo davvero…” disse tra sé e sé. “E’ il sogno di una vita e lo sto accogliendo. Finalmente.”

Eivør – Trøllabundin

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Storie in pillole – I

Storia in pillole per Caffè Letterario.

Caffè Letterario

Ho finito il tè!”

Il tono di Miriam era a metà tra il sorpreso e il disperato. Senza il tè la dispensa era per lei vuota e la sua routine stracciata. Alle 17.00 il bollitore doveva fischiare, l’acqua colorarsi e l’aroma diffondersi; ora si ritrovava senza niente, il suo rituale rannicchiato in un angolo, in attesa.

Il tè era ciò che per lei faceva di un posto casa, la famosa “casa dolce casa” dove i problemi sembrano non solo più piccoli ma anche facilmente risolvibili. Senza il tè, quell’amorevole calore andava perso.

Chiavi. Dove sono le chiavi.” borbottava mentre cercava frettolosamente in ogni anfratto della casa.

Borsa! Sono in borsa ovviamente.”

Le afferrò insieme alla patente e a pochi soldi. Non serviva la borsa, bisognava uscire leggeri per quella missione così importante.

La sagoma familiare del supermercato le parve un’oasi in mezzo al deserto; si fiondò dentro…

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6 Settembre

Oggi avrei dovuto pubblicare la seconda parte del racconto “Vacanze in Supramonte” ma, a causa di caldo e problemini vari, non sono riuscita a trovare la concentrazione necessaria per scrivere. Quindi anche oggi, come già fatto in passato, vi parlo un po’ della mia terra. Settimana scorsa ho giocato alla turista, erano anni che non lo facevo e sia il caso che l’istinto mi hanno riportato nel quartiere storico di Castello che mi ha fatto letteralmente da scuola e quasi da casa per sette-otto anni. Non scorderò mai il suo profumo stantio e umido, carico di storie e sentimenti, come la pelle degli anziani che trasuda saggezza e vita vissuta.

Mi sono emozionata nel passare davanti alla mia vecchia scuola, un ex monastero eretto IMG_20170828_180921nel 1539 e convertito in asilo già alla fine dell’Ottocento, e ho dovuto resistere alla tentazione di citofonare e chiedere di poter vagare di nuovo in quegli spazi che da piccola mi parevano immensi e pieni di mistero. Ahimè, non ho avuto il coraggio di farlo e mi sono pentita; comunque la buona notizia è che la scuola da lì non si sposta, magari approfitterò di questa certezza in un’altra occasione.

Una curiosità: la scuola è direttamente collegata alla chiesa di Santa Lucia. Dall’architettura semplice ma d’effetto, la chiesetta apre diverse volte ogni anno, compreso in occasione di Monumenti Aperti, giorno in cui a fare da guide sono, udite udite, piccoli scolari emozionati ed impazienti che stanno sul portone nella speranza che qualcuno entri. Anche io per tre anni ho fatto parte di quella schiera ansiosa e, insieme ad una grande conoscenza della chiesa e dell’istituto in questione, ho acquisito anche un trauma. Sì, sul serio. In terza elementare, per lo meno ai miei tempi,  alle miniguide toccava illustrare la storia di Santa Lucia che si concludeva con un lapidario “ella si strappò gli occhi” e sguardo tragico verso la statua della Santa con occhi su piatto. A dirlo così vien da ridere ma vi assicuro che la cosa è tutt’altro che comica. Va bene, scendiamo a patti. E’ tragicomica. Dell’interno della chiesa non ho foto, ma vi allego la descrizione della sua architettura per chi fosse interessato.

Una delle cose che mi ha sempre colpito di Castello è il suo essere costruito in bilico su IMG_20170828_165310una rocca, a 25 anni ho ancora paura che qualcuna delle costruzioni possa precipitare nel vuoto all’improvviso, considerato anche il generale stato di abbandono di molti edifici. Credo basti la foto qui accanto per avvertire un leggero senso di vertigine. La costruzione che vedete è la Cattedrale di Santa Maria Assunta e Santa Cecilia, nome lungo ma assolutamente meritato vista la sua bellezza. Ma della cattedrale vi parlerò un altro giorno, magari affiancando alla sua gloria la triste vicenda del Convento di Santa Caterina, precipitato nel vuoto in una notte di tempesta e le cui suore ancora vagano per le stradine del quartiere in compagnia di altri spiriti tormentati, perennemente in cerca di pace.

Ma queste sono altre storie.

P.s.: se siete interessati, potete trovare tante altre foto tra i contenuti del mio profilo Twitter. Curiosate liberamente! :)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vacanze in Supramonte

Vi propongo un altro esperimento. Non avendo fantasia, ho chiesto aiuto al popolo di Twitter e mi è venuta in soccorso Cris B. . Avevo chiesto un personaggio, un luogo e una cosa e questo (vedi foto) è ciò che mi arrivato, completo di alcune linee guida che non mi aspettavo ma che mi hanno lasciata piacevolmente sorpresa. Oggi posto la prima parte del racconto, al prossimo turno arriverà la seconda. Buona lettura!

Cattura

Matteo si aspettava un mese di mare. E invece no; si era ritrovato catapultato in Supramonte, Parco del Gennargentu, Barbagia, Sardegna, Italia, Europa, Terra.

Quando aveva capito che la strada non avrebbe fatto altro che salire, aveva iniziato a piangere disperato, ricordandosi all’improvviso di una conversazione sentita per caso in cui sua madre diceva “lo manderei a fare un giro in Supramonte! Col cavolo che torna!”. Ora, la madre non necessariamente si riferiva al figlio, questo Matteo l’aveva capito, ma in ogni caso gli era rimasto impresso il tono fatidico associato al cuore selvaggio di quella meta estiva perennemente bruciata. Il Supramonte è quello dei banditi, per intenderci, qui in Sardegna lo impariamo presto, e il bambino, pur essendo nato nel “continente”, era sardo fino al midollo. Nemmeno i genitori erano felici del cambio di programma, solitamente trascorrevano le vacanze nella casa al mare dei genitori di lei in cui c’era posto anche per i genitori di lui. Il destino però aveva voluto che una zia di lui, tale Tzia Bona, decidesse di morire proprio la sera prima della partenza, quindi la famiglia aveva dovuto cambiare destinazione: da Stintino a Orgosolo. C’era da aiutare i nonni con la defunta, il funerale, la sepoltura e i parenti. Soprattutto con i parenti. Ah, e con il caffè. Sì, perché qui ai funerali si beve caffè, ad ogni parente che arriva si mette su un’altra caffettiera e via! Un altro giro per tutti, manco fossero shottini. A fine giornata si sta tutti nevrotici come chi passa una giornata in un ingorgo cittadino. Ah, poi ci sono le caramelle per i bambini, quelle alla panna. Nonne e zie più o meno acquisite danno vita ad uno spaccio che non si vede manco nei quartieri malfamati di Cagliari. E guai a dire no, che sia no al caffè o alla caramella, se ti azzardi a rifiutare, ti inceneriscono con lo sguardo. Allora ti tocca rimediare dicendo che la caramella la mangi dopo e la metti in tasca, ma il caffè è un problema, ci devi ripensare subito e mandarlo giù tutto.

Tornando al piccolo Matteo, i giorni di lutto passarono lenti ma finalmente, una volta sepolta la povera donna, la casa dei nonni si fece più tranquilla e tutta la famiglia (genitori, nonni, zii, parenti, vicini e cani) optarono per una gita in Supramonte per prendere aria.

Non voglio andare in Supramonte! Non voglio morire lì!”

E mica ti ci lasciamo, tesoro! Torni a casa con noi!” gli disse la madre prendendolo per mano e strascinandolo verso l’auto mentre il padre quasi rotolava dalle risate.

Il Supramonte non era poi così male, constatò il bambino appena sceso dalla macchina. La foresta di Montes con i suoi lecci secolari gli si parava davanti in tutto il suo splendore. Si trovavano nell’area picnic vicino alla sorgente di Funtana Bona, a pochi metri da una foresteria che ospitava un piccolo museo naturalistico; in men che non si dica la tavola fu preparata e sommersa da xivedde di malloreddus conditi con sugo di salsiccia e di culurgiones inondati di pecorino stravecchio, poi taglieri di salumi e formaggi, compresa una forma di casu martzu di contrabbando, barattoli di olive in salamoia, quelle buone preparate in casa da Nonna Maria, l’olio buono di Tziu Tonino, salsiccia fresca da grigliare perché qui non solo mangiamo quella fresca, ma la facciamo pure essiccare, ché di salsiccia non ce n’è mai abbastanza. E da bere? Cannonau, Nepente e, per digerire, Fil’e Ferru, anche questo di contrabbando perché lo stesso Tziu Tonino di cui sopra diceva che “L’ho sempre fatto e mai sono morto!” Infatti uno non crepa fino a quando non crepa, no?

Dopo pranzo i grandi si dedicarono a pettegolezzi e pisolini mentre i bambini organizzarono una partita di calcetto improvvisando delle porte con dei rami trovati sul limitare del bosco. Guai ad andare oltre il primo albero! Gli adulti li avevano avvisati: se ci si perde in Supramonte, a casa non si torna più.

Ovviamente la palla non aveva niente di cui preoccuparsi, dato che una casa vera non l’aveva, per cui al primo tiro andò a piazzarsi dietro un arbusto oltre la seconda fascia d’alberi. Matteo, con tutto il coraggio che aveva in corpo, andò a recuperare il pallone e, proprio mentre lo stava tirando fuori dal cespuglio, si accorse che il vento portava un verso flebile non molto lontano. Lanciò il pallone al cugino ma non lo seguì quando questo si voltò per tornare a giocare; si diresse invece nella direzione opposta, addentrandosi nella foresta alla ricerca di quello che pareva un piccolo uccellino. Camminò per un po’ senza curarsi delle raccomandazioni di genitori e parenti che dalla mattina non avevano fatto altro che ripetere “Non allontanatevi troppo e, SOPRATTUTTO, non addentratevi nel bosco!”. In effetti gli sembrò di sentire qualcuno chiamare il suo nome ma fece finta di nulla e continuò la sua ricerca. La sua curiosità era troppa, irrefrenabile. Arrivò in una radura e trovò una piccola poiana di Sardegna caduta a terra; la raccolse con delicatezza e guardò in alto alla ricerca del nido. I rami erano fitti e non sapendo esattamente che cosa cercare, si girò sui suoi passi per portare la piccola malcapitata agli zii che sicuramente avrebbero saputo cosa fare. Camminò per quello che gli parve un tempo interminabile e ancora dell’area picnic non c’era traccia. Chiamò allora i cugini per nome, uno per uno, ma ancora niente. Sentì un fruscio alla sua destra e allora pensò che qualcuno gli stesse facendo uno scherzo per dargli una lezione, magari lo zio Luca che quelle zone le conosceva bene e sicuramente gli era venuto dietro appena si era accorto del suo ingresso nella foresta, ingresso non seguito da un’uscita.

Puoi uscire fuori adesso! Mi dispiace.”

Niente.

Iniziò allora a sentire il panico crescere dentro il suo petto e si mise a correre di qua e di là, urlando a perdifiato e con il piccolo uccellino stretto al petto.